Il 19 Marzo mi sono ritrovata nella piccola città della mia infanzia e ho rivisto persone e cose che la mia mente aveva forse accantonato non per rimuoverle dal mio animo ma per una serie di situazioni contingenti che non sto a raccontarvi. San Giuseppe, definito dalla devozione popolare “lu gran patriarca”, viene venerato e festeggiato in molte località della nostra isola e se per fama conosciamo gli altari o le “cene” di Salemi, dove abili mani preparano artistiche sculture di pane azzimo che ripropongono simboli sacri e profani, anche nell’Agrigentino la fede e la tradizione danno alla festa del Santo un colore particolare
A Ribera, il “governatore” della festa si avvale della collaborazione di un comitato che organizza insieme alle autorità religiose la preparazione dei festeggiamenti in onore di San Giuseppe. Caratteristico è un carro votivo detto “stragula”, formato da rami di alloro che fanno da supporto ai pani in onore del Santo. Mi sono chiesta se il vocabolo stragula possa riferirsi ai cumuli di grano che venivano sistemati sull’aia durante la mietitura o se indica il supporto su cui poggia la struttura del carro.
Di fatto la “stragula” viene portata in giro per le vie della città per significare e auspicare l’abbondanza del pane e quindi del cibo necessario alla vita di ogni giorno.
Il corso Umberto viene addobbato con archi di luci colorate e sulla piazza antistante la Chiesa Madre viene allestito un palco adorno di palme pronto per lo spettacolo serale, a conclusione della festa, dopo la tradizionale processione per le vie della città. Ricordo una preghiera antica che recita così: “ San Gisippuzzu Vui siti lu patri e Maria la nostra matri, Maria è la rosa , Vui siti lu gigliu, datimi aiutu, cunfortu e cunsigliu”.
Il giorno 19 marzo, dopo un triduo di preghiera, in ogni parrocchia si celebra una messa solenne in onore del Santo, viene benedetto il pane che verrà distribuito ai presenti e portato alle persone assenti, specie agli ammalati.
Prima della celebrazione della messa, all’esterno della parrocchia alcuni volontari organizzano la minestra di San Giuseppe, utilizzando un enorme fornello a carbone o a legna sul quale sistemano un pentolone simile a quello che si usava per la preparazione della salsa di pomodoro da imbottigliare e conservare.
La minestra ci riporta ai tempi tristi del dopoguerra, quando i poveri erano numerosi più di ora e chiedevano ai conventi e alle famiglie ricche una scodella di cibo per sfamarsi. Non a caso mia nonna Tina, che non era molto ricca, metteva giù nell’acqua di cottura della minestra un pugnetto di riso o di pasta in più pensando al povero del paese che bussava frequentemente alla sua porta per chiedere qualcosa. La minestra del 19 marzo viene preparata utilizzando le verdure di stagione , in particolare il finocchietto selvatico e il cavolfiore, e unendo alle stesse prima il riso e poi la pasta corta, in passato nota come “minuzzaglia”, cioè i frammenti di pasta che il proprietario del pastificio non riusciva a vendere ai suoi abituali clienti e quindi regalava ai poveri.
Una figura emerge dall’album dei ricordi, un padre di 8 figli ancora piccoli, di nome Giovanni, manovale innamorato della sua donna,
Assunta e della vita grama che era chiamato a vivere negli anni ‘50, proprio lì nella piccola città della mia infanzia.
Giovanni sapeva suonare la chitarra, cantava stornelli siciliani con grande passione tanto che negli anni ‘70 venne chiamato dalla radio locale per trasmettere la sua musica e le sue canzoni e riusciva a trasmettere gioia ed
entusiasmo agli ascoltatori.
Proprio Giovanni , il giorno di San Giuseppe, come per un antico rito, aiutava la moglie a preparare la minestra tradizionale mettendo a cuocere le verdure raccolte in un terreno vicino, situato all’uscita del paese.
Al momento di mettere giù il riso e la pasta, Giovanni faceva notare al più grande dei suoi figli che il riso era poco per 10 persone e la “minuzzaglia” poteva bastare per 4 persone, ma fiducioso nella Provvidenza invocava San Gisippuzzu e continuava il suo lavoro di cuoco. Al momento di portare in tavola la minestra fumante, Giovanni notava che il piatto di ognuno era colmo e iniziando il pranzo ringraziava il Santo per il cibo abbondante che tutti consumavano con grande gioia e commozione. Così raccontava Giovanni e credeva nel miracolo che si ripeteva ogni anno.
Ai tempi d’oggi la minestra di San Giuseppe viene offerta a tutti quelli che la chiedono, ignari che il padre dei poveri e il capo della santa casa di Nazareth, in passato riusciva a operare miracoli nella umile casa di una famiglia ricca di fede e di speranza.