Ai margini del mio giardino scorreva un fiume chiamato Verdura forse per la ricca vegetazione che lo circondava come in un abbraccio tenero e riconoscente, dato che gli agrumeti venivano irrigati da quelle preziose acque. I pescatori di anguille ponevano i tipici cestini di giunco nei posti strategici per catturare quei pesci che a me davano una strana sensazione specie se portati in cucina e utilizzati per preparare il riso o per una frittura, mi sembravano rettili e ne mangiavo un po’ per non deludere mia madre e le mie zie che ne esaltavano la bontà. Ricordo che alcuni pescatori di anguille, in attesa della preda, si dilettavano a costruire i “friscaletti, una sorta di fischietti ottenuti tagliando in più segmenti una canna e praticando su ogni segmento dei fori da far pensare ad un flauto rustico.
Le canne fiorite erano la mia passione, ne tagliavo alcune per sistemarle in un grande boccione di vetro verde posto in un angolo della sala d’ingresso e ancora nella mia nuova casa ripeto lo stesso rito, ogni anno, quando dal mio terrazzo vedo il canneto che costeggia un breve tratto del viale Giovanni Gentile e mi accorgo della fioritura.
Nel periodo della mia giovinezza ho letto molto e dovendo preparare la mia tesi di laurea il mio professore di Letteratura italiana, Giorgio Santangelo, mi consigliò di rivisitare la figura di una scrittrice sarda, Grazia Deledda, autodidatta, molto criticata e mortificata anche dal nostro Luigi Pirandello e non so dirvi la vera ragione, anche se le voci correnti in quel periodo affermavano che la scrittrice non era degna del premio Nobel assegnatole nel 1926. Canne al vento (pubblicato nel 1913) viene definito da molti critici il capolavoro della scrittrice sarda e di certo fra le pagine del romanzo si coglie l’anima di una terra particolarmente ricca di storia e di folklore, di contraddizioni e di saggezza impersonata dal protagonista, il servo Efix che afferma: “l’uomo è così fatto, buono e cattivo, poi è sempre infelice, i ricchi pure sono infelici. ”E altrove si legge:... “noi siamo le canne e la sorte è il vento”, quasi a riecheggiare le affermazioni di Pascal riguardo la vita dell’uomo, giunco pensante.
Torniamo alle canne, pretesto del nostro racconto. Le origini della canna bisogna cercarle in tutta l’area del Mediterraneo, specie nelle zone ricche di acqua fluviale. Nei tempi passati il fusto veniva adoperato per ricavarne canestri, graticci di canne e sostegno per le piante di ortaggi. Oggi dalla canna si ricava cellulosa per i vari usi industriali.
Spesso la nostra isola viene colpita dallo scirocco, un vento caldo proveniente dal nord-Africa, che porta fin qui la sabbia del deserto.Gli alberi vengono danneggiati specie se sono in fioritura e le viti vedono i germogli bruciarsi e svanire. Solo le canne resistono e ondeggiano piegandosi in obliquo e producendo un fruscio che sa di antico, simile ad un tessuto di seta lasciato in balia del vento. Resistono le canne e dopo l’ondata impietosa dello scirocco si drizzano unite e solidali, compiaciute di aver saputo affrontare il vento africano.
Una favola di La Fontaine narra della quercia e della canna colpite da una bufera che stronca la quercia, sicura della sua forza e della sua resistenza alle intemperie, mentre la canna mortificata e vilipesa afferma:"Io mi piego ma non mi spezzo."
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Da Il giardino dei ricordi, Mazzotta, 2005