Il Verismo, importante corrente letteraria del secondo Ottocento, ebbe il suo rappresentante più illustre nel catanese Giovanni Verga, nato nel 1840 in un'agiata famiglia di proprietari terrieri. Dopo aver trascorso in Sicilia gli anni della prima giovinezza, il Verga visse a lungo a Firenze e a Milano, città ricche di fermenti culturali. Morì a Catania nel 1922.
Dopo avere scritto alcuni romanzi a carattere storico o sentimentale, con personaggi di estrazione alto-borghese, il Verga aderì alla corrente del Verismo, che orientava il suo interesse verso gli strati meno abbienti della popolazione inducendo gli scrittori a rispettare i canoni dell'impassibilità e dell'obiettività. Da quel momento lo scrittore cercò i suoi personaggi fra le persone umili e diseredate della sua terra, ma non gli riuscì di reprimere i suoi profondi sentimenti ed è una fortuna che ciò sia avvenuto altrimenti non sarebbero nati quei capolavori che sono i romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889) e la raccolta di novelle Vita dei campi (1880).
Queste opere sono scritte in una lingua che nella costruzione del periodo, discostandosi dal modello manzoniano allora imperante, ricalca la parlata siciliana per una maggiore adesione alla realtà.
Il primo romanzo ha per protagonisti gli umili che affrontano con notevole sacrificio le difficoltà della sopravvivenza confortati soltanto dal legame familiare che ispira il mito del focolare domestico. Nel secondo romanzo si parla di un popolano che, avendo raggiunto una ragguardevole condizione economica, cerca la distinzione sociale sposando una giovane nobile decaduta. Ma rimane senza identità perché finisce per non appartenere né alla prima classe sociale né alla seconda.
Inizialmente il Verga aveva progettato di scrivere un gruppo di cinque romanzi, Il ciclo dei vinti, per dimostrare che l'uomo in qualunque condizione, povero, ricco nobile o potente, rimane sempre vinto dalla vita. Gli altri romanzi, però, non vennero mai alla luce.