Queste parole si riferiscono alla vicenda dei Vespri siciliani, la pagina più esaltante di tutta la storia della nostra isola, perché ci mostra un popolo che, stanco dei soprusi subiti, insorge contro il dominatore e riesce a scacciarlo.
Siamo nella seconda metà del XIII secolo. Dopo l'epoca di Federico II di Svevia che, pur essendo di origine tedesca, amò la Sicilia e la fece progredire, la nostra isola fu occupata dalle truppe del francese Carlo d'Angiò, esoso e malvagio.
Egli aveva già conquistato l'Italia meridionale superando la coraggiosa quanto inutile opposizione di Manfredi e di Corradino, rispettivamente figlio e nipote di Federico II. Il primo fu ucciso nella battaglia di Benevento, il secondo, appena quindicenne, fu catturato in un'altra circostanza e giustiziato.
Carlo d'Angiò trasferì la capitale da Palermo a Napoli, cosa che ai siciliani dispiacque parecchio. Ma fu ben poco rispetto ai soprusi che dovettero subire, a cominciare dall'obbligo di ospitare in casa i soldati francesi. Soldati che coglievano tutte le occasioni per mettere le mani addosso alle donne siciliane col pretesto di perquisirle per vedere se avevano armi.
Il lunedì di Pasqua dell'anno 1282 molti palermitani si trovavano fuori le mura presso la chiesetta di Santo Spirito, dove erano soliti trascorrere quella giornata. Un soldato angioino, secondo il costume ormai consueto, cercò di perquisire una popolana, ma subì l'immediata reazione del marito, che non esitò ad ucciderlo. Fu, quella, la scintilla che diede inizio ad una rivolta incontenibile contro l'esercito invasore. I siciliani si armarono come meglio poterono e a frotte, nelle città e nelle campagne, diedero la caccia agli odiati francesi che, non riuscendo ad arginare quella furia umana, cercarono di salvarsi travestendosi da popolani.
Quando i siciliani scoprirono il loro stratagemma, fecero ricorso ad un metodo infallibile per smascherarli. Se incontravano una persona sospetta, la obbligavano a dire cìciri (ceci). Se era un francese pronunziava sisirì o kikirì perché quel popolo non sa pronunziare la c labiale e mette l'accento sull'ultima sillaba. Questo errore di pronunzia era sufficiente per far uccidere quella persona riconosciuta infallibilmente come francese.
Dei Vespri siciliani parla Dante nella Divina Commedia. Il poeta fiorentino dice che i palermitani, non sopportando la mala signoria degli Angioini, si ribellarono gridando: Mora! Mora! (A morte! A morte!)
Un altro poeta che si ispira a quella vicenda é Aleardo Aleardi. Egli riprende la storia di Corradino di Svevia immaginando che il giovane dal patibolo butti fra la gente un guanto, come si faceva per lanciare una sfida. Non fu visto, aggiunge il poeta, chi lo raccogliesse, ma nel giorno voluto dal fato, cioé quando i siciliani insorsero contro gli Angioini, quel guanto fu visto ghermire la fune per suonare le campane e chiamare a raccolta la gente. E' pura fantasia di poeta, ma bella e significativa.